Rubrica bisettimanale per raccontare l’Islam tra (socio)linguistica, studio ed esperienza.
Nella lingua araba i suoni vocalici si chiamano ḥarakāt, letteralmente “movimenti”. Le vocali si differenziano dalle consonanti, perché implicano un passaggio dell’aria libero senza interruzioni complete o parziali. Prova a pronunciare di seguito a-e-i-o-u e osserva: basta solo aprire la bocca in diversi modi e lasciar fluire l’aria per produrre il suono. Le vocali sono quindi i suoni che danno fluidità e movimento alla parola: prova a pronunciare LBR o FRMZN, ci riesci senza aggiungere neanche un piccolo suono vocalico? Probabilmente no, quindi meglio LiBRo e FoRMaZioNe. In arabo le parole si scrivono proprio così: le consonanti si intrecciano in lettere sinuose e i suoni vocalici brevi si aggiungono come piccoli segni, in teoria, perché in pratica si pronunciano ma non si scrivono. Questa tuttavia è una lunga storia che potresti approfondire in uno dei miei corsi di arabo se ancora non conosci questa meravigliosa lingua.
Tra i segni che si aggiungono per indicare i suoni vocalici c’è il sukūn, un piccolo cerchio che indica l’assenza di vocale, come nella parola LiBRo tra la B e la R in arabo ci sarebbe un sukūn. Questa parola deriva da una radice che significa silenzio, ma anche serenità dell’anima. Nella recitazione del Corano secondo le regole del tajweed, ogni volta che si trova un sukūn ci si ferma un attimo in più del solito. Nel mio corso Arabo per il Corano io le chiamo “sospensioni” e invito sempre i partecipanti a riflettere sul significato simbolico dell’esecuzione. Sospendere per un momento prima della sillaba successiva è un esercizio di pazienza, è un respiro in più che concedo alla mia anima in tumulto.
Ogni volta che una frase è conclusa in arabo classico, non si pronuncia la vocale dell’ultima sillaba, un sukūn immaginato, una sospensione che tecnicamente si chiama forma pausale. Si respira ancora una volta nel silenzio prima della prossima parola. Un invito a fermarsi per recuperare energia prima della prossima attività. Nel caos quotidiano raramente ci accorgiamo di respirare, raramente ci concediamo una pausa reale e profonda. Si corre da un’attività all’altra fino a sera: ci si mette a letto con i pensieri che affollano la mente e si sovrappongono al desiderio di riposo. E una volta svegli si ricomincia. Nessuno ci insegna che bastano cinque respiri per ritrovare armonia, basta decidere di fermarsi per attraversare con serenità il caos quotidiano.
Praticare l’Islam in qualche modo mi impone di fermarmi grazie alle cinque preghiere rituali: cinque momenti in cui il tempo è sospeso, i sukūn tra una consonante e l’altra, il silenzio e il respiro che radicano alla terra e innalzano verso il cielo.
Ho trascorso tanto tempo a studiare ed applicare tecniche di gestione del tempo e dello stress, per non soccombere sotto il peso degli impegni e per aiutare altre persone nel cammino. Nessuna tecnica tuttavia funziona se non si comprende il valore di una pausa profonda, a occhi chiusi in silenzio, respirando consapevolmente per riconnettersi alla vita che scorre. Basta poco, il tempo di un sukūn.