Io, il velo e l’Iran

Non è un indumento qualunque

Copertina de Il velo dentro, Villaggio Maori Edizioni

Il hijab non è un indumento qualunque, è un atto di devozione per alcune, per altre una consuetudine, per altre una convenzione culturale, per altre ancora un’imposizione. In un modo o nell’altro indossare il hijab trasforma.

Mentre Giulia Impellizzeri prepara le bozze della copertina e io aspetto con emozione la stampa del libro Il velo dentro, dall’Iran giungono continue testimonianze di donne che protestano contro l’obbligo dello hijab. Tutto ha inizio a seguito della denuncia dei familiari di Mahsa Amini, brutalmente arrestata e uccisa dalla polizia per aver indossato il velo in modo non corretto secondo le regole della Repubblica Islamica. Nei media italiani cominciano a scorrere parole e argomentazioni.

Tante parole….

Photo by SAFIN HAMED / AFP)

Il coraggio e la sofferenza delle donne e gli uomini iraniani vengono usati per reiterare un discorso contro l’uso dello hijab in un quadro narrativo islamofobico. Dall’altra parte c’è chi usa le proteste per denunciare la situazione delle donne che, in paesi come la Francia, lottano per il diritto ad indossare il hijab. Peggio ancora c’è chi usa le proteste per propaganda politica e chi preferisce non parlarne “perché abbiamo altre priorità”. In questa folla di parole è difficile rispondere a chi chiede la mia opinione senza accorgersi che il mio hijab non è uguale a quello che portano le donne iraniane. Non ho mai visitato l’Iran, la mia conoscenza sommaria della sua storia e del suo ordinamento politico non mi permettono di analizzare quello che sta accadendo. Per fortuna in Italia abbiamo persone come la prof. Paola Rivetti che, da quando sono iniziate le proteste ha intrapreso un lavoro di divulgazione offrendo al pubblico italiano gli strumenti di base per costruire solidarietà.

Fuoco che purifica

Le immagini delle donne che bruciano il hijab mi scuotono dentro, soprattutto in questo delicato momento che precede la pubblicazione del Il velo dentro scritto quasi tre anni fa, rimasto fermo a causa della pandemia, e in procinto di essere cullato dalle mani dei lettori in un periodo in cui la parola hijab è ovunque. Mi scuotono dentro perché mi interrogano in modo prepotente, tanto che le orecchie un po’ schiacciate dallo hijab mi fanno più male del solito. Penso anche che il fuoco può essere visto come strumento di purificazione attraverso quella che sembra distruzione. Le donne iraniane attraverso il fuoco, purificano il hijab da un uso strumentale e violento. Ci danno la possibilità di vedere chiaramente quello che la religione non dovrebbe mai essere.

Il velo, il corpo, la consapevolezza

Foto di Maria Avallone

Sono una danzatrice, lavoro con il corpo, a cui presto attenzione quasi 24 ore giorno. So benissimo che l’abbigliamento ne condiziona il movimento e la sua libertà di esprimersi. In particolare so osservare molto bene cosa fa il hijab al mio corpo: mi avvolge e mi fa muovere con maggiore cautela: i movimenti sono più piccoli e controllati e così mi aiuta ad essere sempre in presenza. Per me è scomodo e a volte mi fa un po’ male, così da ricordarmi l’importanza del sacrificio. Continuo ad indossarlo per amore anche se a volte è un macigno, come è la vita, quando scegliamo di attraversarla in modo intenso e consapevole.

Tuttavia di fronte a quelle immagini sento l’irrazionale impulso di strapparlo via come fanno loro sfinite da anni di oppressione, paura e violenza. Ci stanno dicendo che è tutto tremendamente sbagliato.

Per uno spazio libero

Sorrido quando scopro che tra le donne che protestano ci sono anche quelle che portano il hijab con convinzione, perché la grandezza di queste proteste risiede proprio nel richiamo alla libertà e il rispetto, perché è solo in uno spazio dove tutti i corpi hanno il diritto di muoversi per quello che sono l’umanità può sopravvivere. In questo momento prego che vincano la loro battaglia per uno stato laico non confessionale, prego che non ci siano troppi morti, e che possano tutti trovare lo spazio di esistere, in Iran come ovunque nel mondo. Mi addolora e mi sconcerta il fatto che l’Iran, cuore di una civiltà fatta di poesia, calligrafia, architettura, sapienza spirituale, un paese abitato da menti brillanti, da giovani colti e consapevoli, sia stato soffocato da complesse dinamiche sociali e politiche che hanno portato alla costruzione di uno stato totalitario, che fa dell’Islam uno strumento di potere e oppressione. Mi addolora e mi sconcerta l’idea che i corpi femminili siano ridotti a strumento sessuale, obbligati a coprirsi per non indurre in tentazione, per affermare il potere attraverso la sopraffazione. Questa idea malsana accompagna tante persone in giro per il mondo, donne comprese e ovunque ci sono donne che sentono la necessità di liberare il hijab da strumentalizzazioni all’interno dell’islamofobia da un lato e dell’abuso spirituale dall’altro. Molte scelgono di liberarsene totalmente pur restando musulmane e ovunque nel mondo incontrano difficoltà e giudizio. Io stessa ho spesso ricevuto insulti perché a volte lascio scoperto il collo.

Per la bellezza

Ma io non so cosa significhi essere un’attivista iraniana, non so cosa significhi rischiare la vita a causa delle proprie idee. Per quanto io sia legata da profonda amicizia e sorellanza ad una donna iraniana, io non so cosa significhi essere lei e lei non sa cosa significhi essere me, eppure questo non ci impedisce di sentirci unite, perché al di là dei nostri corpi così diversi c’è altro. E così non mi resta che osservare con ammirazione e commozione coloro che stanno sacrificando le loro vite affinché la Bellezza torni a rifiorire.

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