Essere palestinese
Agosto 2015: Il mio primo viaggio in Palestina: due mesi di studio e ricerca. Le prime due settimane trascorrono un po’ da turista, ma insomma lo so solo io di essere europea. La mia pelle scura, il mio hijab, il mio arabo levantino fanno di me una palestinese. Non è semplice spiegarlo ai soldati che mi fermano per visionare i documenti, mi fanno un sacco di domande tra cui “come mai parli arabo? Sicura di non aver nessun parente arabo?”. Per entrare alla moschea di Al-Aqsa mi fanno recitare la Fatiha, come dimostrazione che ho il diritto di entrarci a qualsiasi ora per pregare. La recito senza le regole del tajweed, commettendo qualche errore di proposito per non destare sospetto, per sembrare straniera insomma. Finalmente mi lasciano varcare la soglia, ma qualcuno mi fa notare che nonostante i miei pantaloni larghi devo indossare una gonna. Non sopporto questo genere di imposizione ma accetto pur di pregare in uno dei luoghi più cari alla storia dell’Islam.
Quando tutto cambia
Da Gerusalemme mi sposto a casa di una famiglia in Cisgiordania per iniziare la mia ricerca di campo: i giorni trascorrono tranquilli fra feste di matrimonio, lunghe ore a parlare e sgranocchiare semi, mandorle, noccioline, tentativi falliti di imparare a cucinare, visite guidate con turisti tedeschi, dabke e danza varia, fino a quando all’improvviso tutto cambia. Abbiamo notizia dell’omicidio di un passante israeliano da parte di un palestinese, dicono che si tratti di un padre a cui i soldati israeliani hanno ucciso il figlio di tre anni: inizia quella che passa alla storia come Intifada dei coltelli. Ci sono scontri quasi ogni giorno nella spianata delle Moschee e nelle strade di Gerusalemme e Cisgiordania: un giorno nell’ultima gita a Gerusalemme mi trovo coinvolta anche io un un inseguimento di tre soldati verso un giovane palestinese, che correndo mi trascina sulla sua traiettoria. Riesco a deviare entrando in un vicolo cieco, quando il respiro rallenta ritorno sulla strada principale, entro in un negozio, qualcuno mi fa bere e mi dice “non aver paura”. Non è prudente restare lì e così grazie al privilegio del passaporto europeo io e altre due persone straniere come me andiamo a trascorrere la giornata a Yafa e rincasiamo quando la situazione si calma.
Qualche giorno dopo, Rashid torna a casa furioso, mi mostra un video di una ragazza uccisa ad Hebron “mi dice guarda Maryam, potevi essere tu, guarda ti somiglia anche un po’, hai visto è proprio nel punto dove eri tu l’altro giorno. Dicono che l’hanno uccisa perché aveva un coltello in borsa che non è mai stato trovato.” Diventa pericoloso uscire di casa, soprattutto se non accompagnata e così inizia una sorta di lockdown, anche i negozi chiudono per lutto, nessun luogo è sicuro.
Hai paura di morire?
Raesa ha bisogno di uscire, deve andare a Betlemme in clinica pediatrica per suo figlio nato con problemi respiratori gravi. Mi offro di accompagnarla, all’uscita dell’ospedale ci ritroviamo in mezzo ad uno scontro tra pietre lanciate dai palestinesi, lacrimogeni e spari dell’esercito. Un uomo che conosce la mia amica ci carica in macchina e ci riporta a casa. Qualche giorno dopo giunge la notizia di un’altra ragazza uccisa davanti alla porta di Damasco, perché stava prendendo lo smartphone dalla borsa, ma purtroppo il cecchino pensava che stesse per tirare fuori un’arma. Anche in questo caso Rashid ci tiene a precisare che la ragazza ha la mia età. I notiziari sono accessi 24h, vedere la scritta Intifada su tutti i canali fa un certo effetto, una notte dormiamo tutti nella stessa stanza perché i soldati si stanno avvicinando e potrebbero irrompere anche a casa nostra. E’ lì che Ahmed, 7 anni, mi chiede:
“Maryam hai paura?”
“Sì un po’.”
“E di cosa hai paura? Di morire?”
Non rispondo e lui continua:
“tanto prima o poi morirai e non sei tu a deciderlo. Meglio se muori qui in Palestina, ti immagini tutti i canali televisivi parlerebbero di te.” Sorrido e poi gli dico che è meglio mettersi a letto.
Il giorno dopo racconto dell’accaduto al mio amico Rashid e lui mi dice “sai Maryam a noi qui non interessa molto di vivere, la tua vita è bella per questo non vuoi morire, la nostra è un inferno, non fa differenza”.
Il giorno dopo l’amico di Mazen viene sparato mentre si recava a lavoro “eppure lui era uno che non ha mai tirato una pietra, sognava in una soluzione politica e pacifica”.
Le persone intorno a me piangono e ricordano di tutte le miserie che hanno subito nella loro esistenza, io resto pietrificata, riesco solo a mugugnare Ya Latif, Subhana Allah, non ho molto da aggiungere.
“Non odiare”
Poi arriva lei Umm Khalil: “Non odiare, Maryam, non odiare. Non andare in Europa con l’odio nel cuore. Noi siamo musulmani, non odiamo nessuno, siamo tutti esseri umani. Anche i soldati lo sono, non odiarli.” Mi accarezza dietro la schiena come per lenire il dolore silenzioso che mi attraversa e continua: “Ci sono tanti israeliani dalla nostra parte ma non possono parlare, ce ne sono altri con cui lavoriamo, siamo amici. Non odiarli.” Le sorrido e le prometto nel cuore che proverò a non odiare, ammiro la sua infinita saggezza, anche quando cerca di spiegare alle giovani di casa che lanciare le pietre non può essere le soluzione.
Una mamma mi invita a casa sua perché ha bisogno di aiuto con la figlia adolescente che vuole prendere parte agli scontri. “Maryam spiegale che è rischioso e che non servirà a nulla” mi chiede sua madre. Ci provo, ma allo stesso tempo capisco l’esasperazione e l’assoluta mancanza di speranza in un futuro che sia disegnato secondo le proprie aspirazioni.”
Intanto si prepara il funerale dell’amico di Mazen, io lo osservo dal tetto come fanno le donne della mia età, le adolescenti di casa invece partecipano al corteo, una vera manifestazione con musica e canti per onorare il martire, colui che ci lascia una testimonianza dell’ingiustizia a cui sono costretti i palestinesi. Trattengo le lacrime, Rima se ne accorge e mi dice “Maryam, non essere triste, durante la seconda Intifada era così ogni giorno, io di lacrime non ne ho più ormai, quindi fai come me non piangere.”
Qualche giorno dopo vada a cena da Rula, mi racconta che i soldati sono arrivati fino alla porta di casa, hanno lanciato qualche lacrimogeno, qualcuno lanciava le pietre. “Li ho guardati negli occhi, erano dispiaciuti, secondo me non vogliono farlo per davvero sono costretti, secondo me sono anche stanchi, io non penso che ci odino veramente.” La ascolto e mi domando se la sua osservazione sia solo un modo per far fronte al dramma quotidiano, poi mi ricordo delle parole di Umm Khalil e allora comprendo che ogni persona in quel piccolo villaggio sta cercando di preservare i miei ricordi. Stanno cercando di proteggermi dall’odio, dalla rabbia e dallo sconforto, affinché tornata in Europa possa raccontare della Bellezza della Palestina.
Come si fa a non odiare?
Per anni resto in silenzio, concludo la mia ricerca di dottorato nel 2020, sperando che arrivi il momento giusto di pubblicarla e improvvisamente il 7 ottobre 2023 la Palestina ripiomba prepotente nella mia vita. Ritorna la negazione della storia palestinese e della loro condizione, ritorna il doppio standard, ritornano le narrazioni distorte e semplicistiche. Nella maggior parte dei media tutto sembra essere iniziato solo il 7 ottobre, quando Hamas sferra un brutale attacco provocando la morte di 1200 persone e 240 ostaggi. Il fantasma del terrorismo ritorna nei media mainstream e così i bombardamenti a tappeto, la privazione di acqua, elettricità e mezzi di sussistenza inflitti agli abitanti di Gaza diventa “quel cerotto che va strappato tutto in una volta”, quell’azione necessaria per sradicare il male, a beneficio di entrambi i popoli. Chi chiede pace e giustizia, denunciando la condizione in cui versano i palestinesi da 75 anni viene accusato di antisemitismo e vicinanza ai terroristi in un’ottica islamofoba e razzista. Dall’altra parte c’è chi minimizza o addirittura nega la sofferenza degli israeliani e si lascia andare a semplificazioni e pericolose manifestazioni di disprezzo. L’Olocausto è stata una delle tragedie più grandi del nostro secolo, il concreto realizzarsi di disumano odio e violenza. Ma cosa ne è della catastrofe dei palestinesi, la Nakba del 1948 ancora negata e dimenticata? Olocausto e Nakba sono due avvenimenti che non possono essere comparati, eppure come mostrano gli autori Bashir e Goldeberg, mettendo al centro la nozione di empatia è possibile trovare delle risonanze, una fra queste è la necessità di ricordare. Negare il vissuto traumatico di un popolo, cancellarne le tracce, metterne a tacere le voci, significa sopprimerne l’identità e dunque negarne l’esistenza e il diritto alla vita con conseguenze catastrofiche e questo deve valere per tutti. Come si fa a non odiare chi nega la storia?
Abbracciare la complessità
Ad oggi 16 dicembre i bombardamenti hanno causato la morte violenta di quasi 20000 persone, tra cui quasi 8000 bambini, 90 giornalisti, 102 dipendenti dell’ONU, 22 membri della protezione civile, distrutto 10.000 edifici, danneggiato 3 chiese e 83 moschee. Sono centinaia anche le persone uccise e aggredite in Cisgiordania, in particolare a Jenin. Come si fa a non odiare chi ha commesso questi crimini? Un’amica mi dice di restare salda nell’amore e nella fede, ma io sento vacillare entrambi. Devo però mantenere la promessa fatta a Umm Khalil e così provo a non odiare. Primo passo: riconoscere il dolore di palestinesi e israeliani, essere al loro fianco, riconoscerne la storia di entrambi, perchè sono indissolubilmente legati. Secondo passo, avere il coraggio di distinguere, di scovare le ferite dove si annidano i disequilibri di potere e l’ingiustizia e stare in piedi a denunciarla con il non-odio.
Questo forse è esattamente il momento in cui dal semplice “non odiare” bisognerebbe passare ad “amare ad ogni costo”, proprio oggi, forse, abbiamo bisogno di costruire pace e giustizia dentro di noi per non perdere quel briciolo di umanità che nelle parole della Relatrice Speciale ONU Francesca Albanese “è l’unica forma di resistenza che abbiamo.”