Oggi, in occasione della Giornata della Memoria, non una come tante, ma una particolarmente difficile e dolorosa, voglio ricordare una storia di coraggio e umanità che ci invita a riflettere sulle terribili conseguenze dell’odio razziale e sul bisogno di continuare a ricordare quello che è accaduto a sei milioni di persone ebree durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il libro autobiografico “Il bambino che non poteva andare a scuola” (Manni Editori) di Ugo Foà ci racconta la storia di una famiglia ebrea napoletana durante le leggi razziali in Italia.
Il coraggio di un uomo
Ugo Foà, autore del libro, ci porta nel cuore della sua famiglia e ci fa rivivere gli anni bui dell’Italia fascista. Le leggi razziali privano Ugo e tutti gli ebrei del diritto di frequentare la scuola, di fare sport, di avere una radio in casa, di lavorare negli uffici pubblici e così altre limitazioni deumanizzanti per estromettere completamente gli ebrei dalla vita sociale, economica, politica e culturale. In questo momento così buio, si fa spazio la luce di persone come Marcello Magrì che rischia intenstandosi il contratto di affitto di Ida Laide-Tedesco, madre di Ugo e dei suoi 4 fratelli oppure il maresciallo che chiude un occhio quando scopre la tata “ariana”, che li avvisa prima di far loro visita. Per passare ai genitori di qualche amico che invitavano Ugo a pranzo perché sapevano che la famiglia era numerosa e si faceva fatica a mettere a tavola qualcosa due volte al giorno. E l’insegnante che nel fare i complimenti a Ugo il giorno dell’esame, intende anche dichiarare di non essersi piegata all’irragionevole e disumano razzismo. Anche in quegli anni bui ci sono stati corpi che hanno arginato la barbarie, che si sono opposti alla all’oppressione e all’ingiustizia, restando saldi nella loro umanità. In questo libro Ugo Foà ci racconta dei bombardamenti e poi di studenti universitari, professori, operai, soldati, donne, ragazzi, che combatterono con tutto quello che avevano facendo del capolugo campano la prima città a liberarsi da sola in Europa, in quelle che passano alla storia come le Quattro Giornate di Napoli.
Costruire memoria
Nel lento processo di liberazione dell’Italia, Ugo e la sua famiglia riprendono i contatti con parenti e amici che non erano di Napoli e cominciano a scoprire “la deportazione”. Tra i parenti, uno di Livorno era stato deportato ad Auschwitz e non si avevano più sue notizie, uno zio di Cuneo fu arrestato e deportato, deceduto prima di essere caricato sul treno a causa di una polmonite. E così di altri parenti e amici non si viene a sapere più nulla o giungono tragiche notizie. Solo nel 1947 Ugo Foà viene a sapere dei campi di sterminio e bisognerà aspettare gli anni Ottanta perché si cominciasse a costruire memoria dentro e fuori dalle istituzioni. Era tempo di fare i conti con un pezzo di storia doloroso dell’Italia e di tutta l’Europa e se ancora oggi è necessario ricordare senza se e senza ma, è perché con questa storia non abbiamo imparato ancora a farci i conti.
Ricordare senza interferenze
Oggi più che mai, è necessario praticare un ricordo sincero e onesto non solo per preservare la memoria delle vittime e accogliere la ferita che ogni individuo ebreo, in qualsiasi parte del mondo porta con sé, e per riflettere sulle responsabilità che la nostra società del passato ha avuto nel perpetrare il peggior crimine della sua storia. Dal punto di vista storico la Shoah non può essere paragonata a nessun altra tragedia, rappresentando un unicum, non ha alcun senso accostarla ad altri eventi altrettanto terribili in termini di perdite di vite umane e crudeltà. Tuttavia affinché la memoria sia strumento di consapevolezza e cambiamento è necessario uno sforzo di analisi e presa di coscienza della radice di questo male. La memoria tuttavia, come mostra la storia di Ugo Foà, è fatta anche di persone che si sono opposte autenticamente alla disumanizzazione messa in atto dal regime fascista.
“Mai più”
Onorare questo giorno, il lavoro di Ugo Foà e di altri testimoni instacabili che ci hanno permesso di conoscere questo orrore, significa tornare con coraggio alla nostra umanità, promuovendo il dialogo, il reciproco ascolto, il rispetto di ogni vita umana, perché il ‘mai più’ sia prima di tutto un imperativo della nostra conoscenza. E dovunque si scorgano nazionalismo, disumanizzazione, persecuzione, razzismo ricordiamo che il “mai più” non è bastato ad eliminare la radice di quel male, che forse dovrebbe farci un po’ più male tutti i giorni dell’anno.