“Il velo ormai è dentro e protegge i segreti della fede che non possono essere rivelati con le parole o spiegati con il ragionamento. Il velo è dentro nell’intimità delle corde del cuore, che non sono scrutabili neanche al mio occhio. Il velo è dentro, ed è anche fuori, perché sono fatta di carne e ossa e poi di spirito, il velo è dentro e anche fuori per mantenere equilibrio, perché c’è ancora bisogno di trasformare la so- cietà in cui vivo. Il velo è anche fuori, perché mi ricorda chi sono. Il velo è dentro anche a coloro che non lo indossano. Il velo c’è e non mi rende libera.
Non sarò libera fino a quando ci saranno persone che vorranno imporre alle donne di toglierlo e persone che vorranno imporre alle donne di in- dossarlo. Non sarò libera fino a quando mi giudicheranno per il modo in cui lo porto. Non sarò libera fino a quando sarà visto da alcuni come segno di grande fede e da altri come simbolo di oppressione. Non sarò libera fino a quando dignità e rispetto saranno misurati con i centimetri di stoffa che coprono il mio corpo. Non sarò libera fino a quando l’opinione di una singola musulmana verrà usata per descrivere tutte le musulmane del mondo. Non sarò libera fino a quando sarà la prima o l’unica cosa che gli altri notano di me. Non sarò libera fino a quando non smetterà di essere oggetto di propaganda per imporre l’Islam o per creare undiscorso d’odio contro l’Islam. Non sarò libera fino a quando le musulmane saranno divise in velate e non-velate. Non sarò libera fino a quando non saremo tutti liberi di amare oltre i confini. Non sarò libera fino a quando non sarà più necessario stare in piedi per la giustizia sociale. Non sarò libera fino a quando essere donna non sarà più un problema. Fino a quando tutti, donne e uomini, non saranno liberi dalla cultura maschilista, dalla povertà, dalle guerre, dalle violenze e dalle sofferenze, questioni ben più importanti di uno stupido pezzo di stoffa. Il velo è dentro e non si chiama velo, si chiama hijab. non è stata una mia libera scelta, è stata una scelta obbligata dall’esperienza della fede, obbligata da quello che ho sentito nel momento in cui, guardandomi allo specchio con il viso circondato da un pezzo di stoffa, ho detto: «Ecco, questa sono proprio io».”
Così scrivevo nel 2023 a conclusione del libro Il velo dentro e questo titolo come una sorta di profezia si è avverata.
Il velo, che avevo promesso sarebbe rimasto saldo sulla mia testa è ormai solo dentro. È radicato in profondità, come una trama invisibile che tiene insieme le corde del mio cuore. Protegge i segreti della fede e dei ricordi, quelli che non possono essere né rivelati con le parole, né decifrati con il pensiero. Sono misteri che vibrano nelle pieghe dell’anima, dove non arrivano sguardi, neanche il mio.
Ho infranto la promessa, oggi il velo non avvolge più la mia testa perché semplicemente
mi dà fastidio. Ogni tipo di stoffa, ogni modello, ogni tentativo di adattarlo al mio corpo è stato vano. Ho sopportato mal di testa, fastidi, prurito, ho persino rasato i capelli per poterlo indossare comodamente. Per 13 anni ho accettato il sacrificio, e l’ho fatto con gioia e consapevolezza. Ogni fastidio, ogni movimento controllato mi ha permesso di ricordare l’impegno sul cammino di fede e allo stesso tempo ha scosso le persone che incontravo in una società che ha ancora tanto bisogno di interrogarsi e trasformarsi.
Poi è arrivata la mia maestra suprema: fino al arrivo di un’ulteriore diagnosi, la chiamiamo fibromialgia.
Una presenza costante, un martello che colpisce senza tregua che ha irrigidito i miei muscoli, alterato la mia coscienza, piegato le mie abitudini alla sua tirannia.
Giorno dopo giorno i limiti del corpo si sono ispessiti, ignorarli, superarli fino a stare male sarebbe stata un’opzione, ma non la mia.
La scelta di oggi è dunque una scelta comoda.
Quello che scelgo di fare ogni giorno, il numero di appuntamenti, le persone con cui lavoro, le amiche e gli amici di cui mi circondo, le telefonate a cui rispondo, i film che guardo, i libri che leggo e gli abiti che indosso, tutto oggi scelgo in nome della comodità. La comodità oggi è il mio strumento politico per affermare il diritto del mio corpo a stare il più possibile in salute, a soffrire il meno possibile e a scegliere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Questa è anche una scelta di fede, nell’Islam il corpo è un dono, un bene da preservare, un famoso insegnamento islamico ribadisce questa priorità: ad un uomo che pregava e digiunava notte e giorno il Profeta ricorda: “non farlo perché il corpo ha diritto su di te”.
La comodità nel vestire non è neutrale. Scegliere di vestirmi comoda è un atto di insubordinazione, una dichiarazione di guerra silenziosa. È rifiutare le catene invisibili che ci avvolgono da secoli, catene che si insinuano nelle pieghe strette di un vestito, nei tacchi che ci obbligano a camminare con passi brevi, nei tessuti che accarezzano la pelle, in quelli che coprono le linee del nostro corpo e quelli che le accentuano per compiacere lo sguardo e l’aspettativa maschile. Il patriarcato ha costruito ovunque un’estetica del sacrificio: ci vuole belle, ma scomode; visibili, ma disciplinate; eleganti, ma contenute, velo o non velo è così che si è costruita la moda femminile.
Vestirmi comoda è riscrivere la narrazione del mio corpo, perché è a lui che chiedo se un capo di abbigliamento va bene oppure no, non allo specchio, non ad una pubblicità non al mio immaginario distorto: non più oggetto da ammirare o controllare, ma luogo sacro che appartiene solo a me, perchè a me è stato dato in custodia.
È affermare che esisto per me stessa, non per essere giudicata, definita o approvata. E mi domando: com’è possibile che ho dovuto aspettare due contratture e un crampo alle mascelle e il dolore diffuso e costante per giungere a questa nuova consapevolezza? Perchè tra le tante cose che il patriarcato ci ha insegnato “perchè sì femmena” c’è anche questo: a sopportare oltre, e oltre e ancora oltre, tanto che ci facciamo anche ammazzare in silenzio.
Non credo nei casi, non credo nelle coincidenze. Quando il mio corpo ha cominciato a sgretolarsi sotto i colpi della fibromialgia, un posto laggiù era già in fiamme. Ogni mio spasmo sembrava risuonare come l’eco lontana di una bomba che cadeva, ogni muscolo irrigidito si contorceva come i corpi dei bambini intrappolati sotto le macerie. La mia malattia è nata in mezzo alla tragedia, e non riesco a separare queste due esperienze così lontane. È come se il dolore delle sorelle dall’altra parte del Mediterraneo, si fosse riversato nel mio corpo, trasformando la sofferenza collettiva in una lotta intima. Le loro grida sono diventate il mio respiro spezzato, il loro sangue il mio affanno quotidiano.
Ogni dolore è un promemoria che mi costringe a guardare oltre me stessa, a ricordare che mentre io lotto contro una malattia invisibile, loro lottano contro un nemico visibile che le schiaccia. Le donne laggiù, doppie prigioniere: della loro femminilità imprigionata dal patriarcato e della loro terra occupata, colonizzata e martoriata. Non è forse questa la stessa oppressione che colpisce tutte noi, in forme diverse? Non è lo stesso sistema che ci rende oggetti, che ci limita, che ci imprigiona?
No, non lo è, non è la stessa oppressione, non è la stessa condizione, perché possiamo ripeterlo all’infinito che siamo tutti esseri umani, ma la storia e il presente continuano ad insegnarci che non è così. Non siamo tutti e tutte uguali, non lo siamo da quando è stato deciso che gli uomini hanno più libertà di movimento e di decisione delle donne, perché in quel momento abbiamo stabilito per sempre che in ogni società esistono esseri umani che hanno più valore e più diritti di altri. Abbiamo così stabilito che questo è l’unico modo di organizzarci e far girare il mondo, creando gerarchie, oppressione e ingiustizia.
Non siamo tutti e tutte uguali dunque, ma siamo interconnessi.
E allora oggi il mio dolore non è mio: appartiene a loro, e il loro appartiene a me. È un intreccio, un filo che lega il mio corpo ai loro corpi, la mia malattia alla loro resistenza. E così ogni giorno mi alzo con la consapevolezza che il mio corpo, spezzato e dolorante, è un testimone della loro sofferenza. Non posso, anzi non voglio guarire finché il mondo non guarirà. Non posso trovare pace, anzi non voglio trovare pace finché una madre non potrà mettere al sicuro i suoi figli, fino a quando una figlia non smetterà di piangere sua madre, fino a quando una sorella non dovrà tremare per il rumore delle bombe, fino a quando non saremo tutte al sicuro e felici in ogni angolo della terra.
414 giorni, 1 anno, 1 mese e 18 giorni di genocidio palestinese per ricordare a noi e al mondo che abbiamo fallito. Tutti.