La memoria non è solo ricordo. È identità, resistenza, riflessione, spiritualità. Nella lingua araba, le parole che descrivono la memoria ci insegnano che ricordare è una scelta attiva che permea il modo in cui viviamo come individui e come comunità.
La radice “dh-k-r ” ذكر
Alla base di molte parole legate alla memoria in arabo c’è la radice “dh-k-r” ذكر, che significa “ricordare”, “menzionare” e “affermare”. Questa radice ci offre un insegnamento fondamentale: ricordare non è solo riportare qualcosa alla mente, ma dare importanza e presenza a ciò che conta davvero, affermando la nostra identità e la nostra storia.
Il ricordo spirituale
Il termine che descrive il ricordo di Dio, spesso chiamato dhikr, ci mostra che la memoria non è solo legata al passato che rievochiamo in una narrazione presente, ma anche al qui ed ora, quell’attimo senza tempo che ci riconnette all’Io profondo e autentico e al Divino. È un atto di connessione profonda, che nutre l’anima e dà significato alla vita. Nel Corano leggiamo: “E ricordatevi di Me, che Io vi ricorderò.” (2:152) Questa idea di memoria spirituale invita alla riflessione e alla pratica consapevole. Nella pratica spirituale in contesto arabo il ricordo del Divino accompagna la quotidianità: non solo musulmani, ma anche cristiani, ebrei, persone che non praticano alcuna religione, quando parlano arabo si riferiscono spesso ad Allah in espressioni di uso comune, come alhamdullillah, grazie a Dio, quando si parla del presente o inshallah, se Dio vuole, quando si parla del futuro.
La memoria personale
La parola che identifica la memoria personale (dhakira ذكرة) è il tesoro nascosto che custodiamo dentro di noi. È ciò che ci lega al nostro passato e ci forma come individui. Senza la nostra memoria personale, chi saremmo? È attraverso i ricordi che costruiamo la nostra identità, i nostri valori e il nostro modo di essere nel mondo. I ricordi tuttavia sono racconti, narrazioni, che costruiamo non solo sulla base della nostra prospettiva su quanto accaduto nel passato, ma anche in base agli eventi successivi e a chi siamo nel momento in cui riportiamo alla mente ciò che è accaduto. Prova a pensare ad un episodio significativo della vita che hai raccontato più volte. Noti che a seconda della persona a cui lo racconti, del contesto e della fase della vita in cui sei la narrazione cambia? Questo accade proprio perchè noi selezioniamo i particolari che meritano di essere ricordati e dunque menzionati in base a tanti fattori. Insomma la memoria è sempre selettiva.
Riflettere sul ricordo
La memoria, però, non si limita a un semplice atto di rievocazione. Il termine tadhakkur تذكر ad esempio descrive il processo attivo di richiamare un ricordo per imparare da esso e usarlo come guida per il presente. In sostanza è un atto consapevole e riflessivo che coinvolge mente, cuore e spirito. È l’azione di riportare alla coscienza un ricordo con uno scopo preciso. Riflettere sul passato non significa viverci intrappolati, ma trarre insegnamenti per crescere e migliorare. In un contesto spirituale, tadhakkur è collegato al ricordo di Dio e alla riflessione sulle Sue benedizioni e segni. È spesso citato nel Corano per invitare i credenti a fermarsi, riflettere e riconoscere la grandezza della creazione. Il tadhakkur è la pratica di trasformare il ricordo in uno strumento di evoluzione e crescita. Il tadhakku è la promessa che “mai più” si realizzi per tutti, nessuno escluso.
La memoria collettiva
Infine, c’è il concetto di memoria collettiva (dhikra ذكرى), il ricordo condiviso che unisce comunità e generazioni. È la somma delle esperienze, delle storie e degli eventi che, attraverso il tempo, costruiscono l’identità collettiva di un gruppo. Tuttavia, come ogni narrazione, la memoria collettiva non è mai neutra. La memoria che diventa storia manifesta sempre un punto di vista. È inevitabilmente selettiva: alcuni eventi vengono ricordati e celebrati, altri vengono minimizzati, distorti o completamente dimenticati.
Questo processo di selezione non è mai casuale. È spesso funzionale a uno scopo: rafforzare un’identità nazionale, legittimare un sistema politico, o alimentare una narrativa che conviene ai più forti. Per esempio, la memoria storica di una guerra potrebbe glorificare un lato e demonizzare l’altro, cancellando le sofferenze di chi si trova in mezzo, ignorando completamente disequilibri di potere e diversità nei posizionamenti, come quando oppressori e oppressi si mettono sullo stesso piano. I movimenti di resistenza vengono ridotti a “disordini” o “terrorismo” in alcune narrazioni, mentre altrove vengono celebrati come lotte per la giustizia, senza un’analisi che tenga conto della complessità e soprattutto della voce di chi vive in prima persona.
Una memoria collettiva che mette al centro le voci dei protagonisti diventa infatti uno strumento di giustizia. Non cancella il dolore, ma lo riconosce. Non nasconde le ingiustizie, ma le denuncia. Non glorifica il potere, ma dà dignità a chi lo ha subito.
Questo approccio richiede coraggio, perché la memoria autentica può essere scomoda, destabilizzante e contraria alle narrative dominanti. Ma è solo ascoltando le voci degli esclusi e dei dimenticati che possiamo costruire una memoria collettiva più vicina alla verità.
Perché ricordare è resistere
La lingua araba ci insegna che la memoria non è mai solo un atto mentale. È un gesto di resistenza, un modo per affermare la propria spiritualità, identità e comunità. Ricordare non significa solo non dimenticare, ma anche mantenere viva l’essenza di ciò che siamo.
La memoria non è mai solo un ricordo: è uno strumento di potere. Per questo, dobbiamo imparare a diffidare della memoria selettiva e costruita, e a dare spazio a chi ha vissuto gli eventi sulla propria pelle. La memoria autentica non cancella, non omette, non distorce: illumina il passato per costruire un presente più giusto.