Il mio viaggio tra danza, cultura araba e islam (parte 1)
Ho sempre saputo che prima o poi la danza sarebbe diventata parte importante della mia vita. Quando a 23 anni ho avuto la possibilità di iniziare un percorso di studio in questa sublime arte, non ho avuto dubbi: solo la danza araba poteva accogliermi. Ero una studentessa di arabo e studi islamici al primo anno di magistrale all’Università di Napoli “L’Orientale”. Ero tornata da Damasco da pochi mesi con un velo in testa, o meglio hijab. La mia vita da musulmana era appena cominciata e cercavo di comprendere come muovermi ora che lo sguardo su di me era mutato, come erano cambiate le mie abitudini e il modo di attraversare il mondo.
Avevo bisogno di un linguaggio per esprimere tutto il mio vissuto, una forma d’arte per dare senso al caos, quella che da sempre sentivo vicina: la danza, che per me è prima di tutto un modo particolare di ascoltare la musica e in generale i suoni che ci circondano. L’importanza del suono l’avevo sperimentata a Damasco colpita dal richiamo della preghiera a ma ancor di più dalla recitazione del Corano come ho già scritto qui.
Sapevo poco della danza orientale, a volte chiamata danza del ventre, o danza araba. Il mio immaginario era legato a lustrini e sensualità e mi colpiva il fatto che in Siria la parola raqqasa che dovrebbe significare danzatrice professionista era sinonimo di donna immorale. A Damasco avevo imparato molto sulla modestia e sulla necessità di coprire il corpo, facendo attenzione ai corpi maschili, dove si collocava dunque la danza? Nei matrimoni e nelle case tra donne, così come successivamente ho visto fare altrove nel mondo arabo, ma per me europea, la danza era prima di tutto un’arte performativa, un linguaggio artistico che ha bisogno di pubblico e palcoscenico.
Durante la mia prima lezione di danza orientale scoprii che l’origine di questa forma d’arte e perlopiù sconosciuta, ma che una cosa è certa, il mondo arabo l’ha tenuta in vita, in particolare l’Egitto che ne ha definito gli stili e la tecnica soprattutto grazie al lavoro del danzatore e coreografo Mahmoud Reda. Grazie a lui il folklore arabo incontra il teatro, una forma di narrazione tipicamente occidentale, ma che permetterà alla danza di oltrepassare i confini. Nello stesso tempo nasce la danza da cabaret, per allietare un pubblico eterogeneo soprattutto di inglesi, e così la cultura araba fa i conti con lo sguardo cosidetto orientalista. Di questo ne abbiamo parlato con Claudia Lunetta e Jolanda Guardi qui.
Questa storia in qualche modo mi appartiene e devo farci i conti. Inizialmente scelgo di dedicare alla danza ore di allenamento in sala e a casa. Lo faccio per me stessa, per conoscere il mondo arabo da un altro punto di vista, perchè poco alla volta diventa il mio personale mezzo di espressione. In palcoscenico ci salgo solo per presentare lo spettacolo di fine anno delle mie compagne. Io sono musulmana, porto il velo, mi hanno detto che non si danza in pubblico e non mi pongo domande.
Passano gli anni, mi trasferisco in Germania e sperimento altre danze per curiosità e per arricchire quello che sempre e comunque sembra essere il mio linguaggio artistico prediletto. Nella danza mediorientale come nella lingua araba mi sento a casa. La danza è disciplina che richiede umiltà, sforzo e pazienza, qualità importanti per ogni musulmano. Trovo diverse risonanze con la pratica islamica, eppure attorno a quest’arte ci sono innumerevoli controversie.
Ad un certo punto arriva anche per me il momento di incontrare il pubblico nello spazio del palcoscenico e riscopro un principio islamico fondamentale: l’importanza dell’intenzione, la niyya. Se ho impiegato 10 anni per trovare armonia tra la mia espressione personale, il rispetto da cui ha avuto origine la danza orientale e l’islam, è perchè purificare l’intenzione che è dietro ad ogni movimento non è un’azione banale, ma un lungo processo, a volte doloroso.
Il palcoscenico non è diverso dagli altri spazi che attraversiamo: che siano le strade della nostra città, il luogo di lavoro, o i social media, tutte le volte che il nostro corpo si relaziona con l’esterno ha bisogno di ricordare che è meglio condividere che mostrare, che è più prezioso ricevere emozioni che applausi, che ogni sforzo è vano se non è al servizio del bene comune, che per chi è credente ogni azione è dedicata al Divino e non al nostro piacere personale.